Grazie alla pandemia si è registrato un boom dell’usato. Lo rivela Vestiaire Collective e le ragioni risiedono in parte nella necessità di risparmiare e in parte in una rivoluzione culturale che è ormai in atto.
L’usato “tira”. Quello di lusso di più: oltre il 60% dei clienti di questa fetta del mercato si dichiara interessato ai capi usati.
E alla base di questa piccola ma significativa rivoluzione in atto ci sarebbe solo in parte la voglia di risparmiare. Quel che la clientela cerca è l’unicità, pare, insieme a un’impronta ambientale più sostenibile.
Questo il quadro che può ricavarsi dal report di Vestiaire Collective “The smart side of fashion“.
Vestiaire Collective è il marketplace di origine francese che conta 10 milioni di utenti nel mondo e attraverso cui è possibile vendere e acquistare abiti e accessori second-hand (nonché vintage) di “qualità e di lusso” e come proclama il sito “con prezzi fino al 70% in meno rispetto a qulli in boutique”.
Il report spiega: “Dall’inizio dell’anno abbiamo visto un positivo aumento delle modalità di interazione all’interno della community. Gli utenti seguono sempre più profili e la ricerca è aumentata a dismisura, con picchi fino a dieci volte superiori rispetto all’era pre-COVID-19. La media giornaliera dei commenti sugli articoli è aumentata dell’88% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso”.
Secondo i dati raccolti da VC, nel mese di maggio si è registrato il 119% di ordini in più rispetto all’anno scorso.
Sono stati soprattutto acquistati: abbigliamento sportivo (Adidas +71%, Nike +64%); foulard (Hermes +68% e Louis Vuitton Logomania +23%), i capi chic ma eco-sostenibili (Stella McCartney +42% e Ganni +47%).
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Usato è più economico, spesso unico e sempre sostenibile
La chiave del successo dell’usato, secondo VC, non risiederebbe tanto nella politica di prezzi (anche perchè i capi di lusso sono tutt’altro che cheap). Il tema centrale sarebbe ancora una volta sociale e culturale.
Spiega il report: “Non si tratta solo di una tendenza, ma di un radicale cambiamento di mentalità: l’idea di sostenibilità – soprattutto in termini di moda, che è nota per essere una delle industrie più inquinanti del mondo – si è radicata nelle menti e nelle azioni dei consumatori, sia della Generazione Z che Millennial“.
Insomma, si sta tornando a un’idea più individuale di consumo, meno massiva ma soprattutto c’è una riduzione dei consumi in base all’adagio “poco ma buono“.
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