Coronavirus, una giovane studentessa racconta il suo ricovero all’Ospedale Sacco di Milano: la lettera pubblicata dal ‘Corriere della Sera’
Emergenza coronavirus in aumento in Italia, con il numero di morti e contagi in crescita. Non mancano, fortunatamente, le persone guarite dalla malattia: ad oggi, sono 276, in attesa del nuovo bilancio da parte della Protezione Civile di questa sera. Al ‘Corriere della Sera’, arriva il racconto di Martina Pastori, una giovane studentessa che ha raccontato le fasi del suo ricovero all’ospedale Sacco di Milano e l’esperienza della sua degenza. Il tampone effettuato sulla ragazza è poi risultato negativo e la giovane adesso sta bene. “Pensavo ci fosse da aver paura ma che non sarebbe capitato a me – scrive – Invece mi trovo all’ospedale Sacco di Milano, in isolamento causa sospetto COVID-19. Vi parlo di come io sia stato ricoverata e spero che l’informazione aiuti a smitizzare ansie e paure”.
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“Sono arrivata in ospedale alle 18.45 di lunedì 2 marzo – racconta Martina – Da una settimana soffrivo di febbre, tosse secca e insistente, cefalea a intermittenza, dolori diffusi, ma, soprattutto, un senso di costrizione al petto. Nel corso di una mia crisi respiratoria, lunedì pomeriggio la mia famiglia ha preso per me la decisione di chiamare il 118. Dopo le prime verifiche, le operatrici sanitarie hanno chiamato il Servizio Sanitario Nazionale e ricevute istruzioni mi hanno messo in ambulanza, diretta al Sacco. All’ospedale, sono entrata in una stanza di biocontenimento. Ho trascorso ore lente in quella saletta, poi verso mezzanotte sono arrivati tre medici coperti e mascherati. Mi hanno fatto degli esami, un prelievo, una radiografia e infine il tampone. Questo sembra un cotton fioc di circa quindici centimetri che viene infilato prima in una narice poi nell’altra. I medici sono stati molto gentili e hanno cercato di distrarmi.
Sono stata quindi trasferita nell’area destinata alla degenza dei pazienti in attesa del risultato del tampone. I tempi di esame, in quest’emergenza, possono arrivare fino a 48 ore. Le camere per i casi sospetti di contagio da COVID-19 sono singole, quasi normali se non fosse per il filtro che le separa dal resto del reparto. In camera si può stare senza mascherina e guanti, tranne se qualcuno entra in stanza: in quel caso arriva avviso tramite interfono. I contatti con il personale medico sono ridotti all’osso: due volte al giorno, alle tre del pomeriggio e alle otto di sera, ai pazienti viene richiesto di provarsi la febbre, e di comunicare tramite interfono la propria temperatura corporea. Per quanto mi riguarda, ho ricevuto la visita di un medico solo il primo giorno, perché avevo la febbre alta; i restanti due, alle sei del mattino, quella di un’infermiera che passava a misurarmi la saturazione e a valutare le mie condizioni di salute.
Nell’attesa dei risultati mi sono tenuta informata tramite i social media su cosa avveniva fuori. Dall’interno, il COVID-19 sembra destare moltissima preoccupazione. Le misure prese nei miei confronti sono state onnipresenti, calcolate al millimetro, restrittive a dir poco. Tutti sono stati molto presenti e cordiali, ma anche molto stanchi, eppure devono fare turni massacranti. Inoltre, Dio benedica la sanità pubblica: non dobbiamo dare per scontate le cure gratuite, a New York un ricovero simile mi sarebbe costato forse ottomila dollari. Alla fine, mi è stato comunicato l’esito negativo del tampone. La mia stanza sarà pulita e disinfettata per essere pronta per qualcun altro”.
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