Annalisa Malara, l’anestesista di Cremona che ha individuato il “paziente 1” colpito dal coronavirus, ha rilasciato un’intervista alla redazione di Repubblica.
Sono saliti ad oltre 3.200 i casi di contagio da coronavirus in Italia ed a 148 i decessi. Tutto è partito da un ragazzo di 38 anni di Codogno, che si trova attualmente ricoverato in terapia intensiva all’ospedale San Matteo di Pavia ed è stato definito come il “paziente 1”. Ad intuire che l’uomo, arrivato in ospedale con i sintomi di una polmonite, fosse affetto dal coronavirus è stata Annalisa Malara, un’anestesista di Cremona sua coetanea. La dottoressa ha rilasciato un’intervista alla redazione di Repubblica parlando proprio di quella diagnosi che ha permesso di individuare il focolaio italiano.
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“Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore. Mattia si è presentato con una polmonite leggera, ma resistente ad ogni terapia nota. Ho pensato che anch’io, per aiutarlo, dovevo cercare qualcosa di impossibile. Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto, o forse in quello sbagliato nel momento sbagliato“. Cosi inizia la sua intervista alla redazione di Repubblica, Annalisa Malara, l’anestesista di Cremona di 38 anni che ha intuito che Mattia, quello che ad oggi è divenuto il “paziente 1”, fosse stato colpito dal coronavirus.
Il 38enne di Codogno è arrivato in ospedale il 19 febbraio scorso con una polmonite, aggravatasi in poche ore, ed il giorno successivo è arrivata la conferma: Covid-2019, il primo caso in Italia. Annalisa è il medico che lo ha scoperto ed ha spiegato a Repubblica come è arrivata alla diagnosi che ha poi permesso di individuare il focolai: “Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’ignoto. Il coronavirus si era nascosto proprio qui“.
L’anestesista prosegue entrando nel dettaglio di quei giorni sin dall’arrivo di Mattia in ospedale: “Mattia dal 14 febbraio aveva la solita influenza, che però non passava. Il 18 -riporta Repubblica– è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite. Il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima“. “Tutti – afferma Annalisa ai microfoni di Repubblica– siamo stati sorpresi da rapidità e gravità dell’attacco virale. Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso. Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo“.
La dottoressa si sofferma poi sulla richiesta del tampone ed i risultati di quest’ultimo: “Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo. Forzato le regole? Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane“.
“Il tampone di Mattia -prosegue l’anestesista- è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato. Nessuno di noi è stato contagiato. Siamo usciti giovedì dalla quarantena: chiusi in ospedale abbiamo continuato a curare i malati anche in queste due settimane“.
Annalisa non sa se quella intuizione abbia permesso di salvare la vita a Mattia e quella di altri contagiati: “Nessuno può dirlo. Avevo davanti -riporta Repubblica– un ragazzo giovane e sano. Il quadro suggeriva una polmonite virale, non batterica. I primi trattamenti, in rianimazione, sarebbero stati gli stessi praticati poi per il Covid-19. Solo dopo il trasferimento al San Matteo di Pavia si è potuto sottoporlo ad una terapia sperimentale“.
“La fortuna-spiega la 38enne- se insisti, ti aiuta. Se una persona sta male, una causa c’è. Se le cure note non funzionano, devi tentare quelle che non conosci. Il Covid-19 non aveva messo in conto che l’essere umano, pur di sopravvivere, non si rassegna. Spero di aver contribuito a dare tempo a colleghi e istituzioni, in Italia e in Europa. Abbiamo guadagnato giorni preziosi per il contrasto all’epidemia. Se anche i cittadini li usano bene, rispettando indicazioni e misure di prevenzione, molti potranno guarire e altri eviteranno il contagio. La responsabilità delle grandi scelte -conclude la dottoressa- spetta alla politica: che però, in circostanze eccezionali, coincide con l’etica“.
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