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Interviste

Covid-19, la testimonianza di un’infermiera del Cotugno e di una dottoressa del 118

A proposito della pandemia da Covid-19 che sta mettendo a dura prova il mondo intero, ho avuto il piacere e l’onore di intervistare un’infermiera napoletana del Cotugno e una dottoressa del 118 della provincia di Caserta.

(Getty Images)

La prima lavora all’ospedale “Monaldi” di Napoli ma da quando è cominciata l’emergenza del Coronavirus ha deciso di andare in trincea, dando una mano con la sua esperienza all’ospedale di malattie infettive “Domenico Cotugno“, sempre nel capoluogo partenopeo. Il medico invece lavora in prima linea sulle ambulanze del 118 nella provincia casertana.

Le due professioniste sanitarie hanno preferito rimanere anonime e questo gli fa molto onore perché, come mi hanno spiegato, è importante il messaggio e non il messaggero. Ed è importante fare tutti la nostra parte, rimanendo a casa (clicca qui) per evitare il diffondersi oltremodo del contagio di questo maledetto e assurdo virus.

Due eroine (anche se non vogliono essere chiamate così) dei giorni nostri che ogni giorno lottano in trincea per aiutare i pazienti di Covid-19 e non solo.
G.L. lavora come infermiera da 13 anni, solitamente al Monaldi ma, da quando c’è stata l’emergenza Covid-19, si è offerta volontaria per il Cotugno: “perché il mio primario ha voluto aprire un reparto afferente al Cotugno visto che, lui si occupa di fisiopatologia respiratoria e siccome quest’emergenza necessitava maggiormente la presenza di pneumologi e anestesisti, lo hanno chiamato in causa per poter aprire un reparto di semi-intensiva. E quindi io sono andata in supporto al mio primario. Anche perché avevano reclutato altri infermieri molto bravi ma avevano bisogno di persone esperte anche nel campo della fisiopatologia respiratoria e siccome mi occupo di questo da 10 anni, sono andata anch’io a dare una mano. Ho fatto prima il tampone e poi sono andata. L’azienda ospedaliera dei Colli sta facendo fare i controlli a tutti gli operatori sanitari”.

Com’è la situazione all’ospedale Cotugno? 

“A differenza di come dicono i giornali e la televisione che la terapia intensiva, semi intensiva e i reparti si stanno svuotando, noi siamo assolutamente pieni. Non è vero quello che stanno dicendo. Il numero dei casi sta regredendo ma l’emergenza non è finita. Non siamo inondati come nelle prime settimane però abbiamo comunque il reparto completamente pieno. Appena va via un paziente, ne arriva un altro. Sono pazienti che sono a un passo o dalla guarigione o dall’intubazione. Sono cure intensive per crisi respiratorie acute e i pazienti rispondono diversamente l’uno dall’altro anche se ultimamente l’equipe medica, di altissimo livello, ha capito quali problematiche dà quest’infezione. Dapprima si pensava soltanto a un’insufficienza respiratoria franca acuta da gestire, in realtà poi hanno scoperto che c’è una componente anche vascolare, che va guardata per salvaguardare i pazienti dalle complicanze perché molto spesso questi pazienti muoiono per tromboembolia polmonare, insufficienze renali acute e varie problematiche di tipo cardiocircolatorio dovute all’azione acuta che questo virus procura. Adesso si sono orientati su qual è la fisiopatologia del virus e quindi anche le cure sono più centrate e la maggior parte dei pazienti sta rispondendo bene, poi c’è chi ha delle patologie complesse a priori e ha più difficoltà a riprendersi”.

È vero che stanno sperimentando farmaci nuovi?

“Sì, la cura Ascierto. Stanno sperimentando dei farmaci però non sono farmaci che vanno a curare la patologia di per sé ma mirano più che altro a quello che è il blocco dell’attività virulenta. Farmaci come il Tocilizumab vanno a intervenire sulla cascata infiammatoria che questo virus procura. Le cure a volte stanno funzionando e altre volte no. È molto soggettivo. Sta funzionando il supporto respiratorio ad alti flussi, una buona terapia anticoagulante perché solitamente questa cascata infiammatoria provoca delle formazioni trombotiche all’interno dei vasi che possano essere il rene o il polmone nello specifico a livello alveolare ma anche a livello delle arterie polmonari. Ragion per cui un buona copertura sulla coagulazione del sangue e un buon supporto respiratorio sono le prime terapie d’urto nella gestione di questa patologia. I pazienti stanno rispondendo meglio. Da quando sono al Cotugno, quattro pazienti sono andati via con le proprie gambe, qualcuno invece è peggiorato ma i risultati sono abbastanza incoraggianti. Il problema è gestire varie emergenze insieme. Io ultimamente vedo tante persone per strada, ho paura di un nuovo picco e del fatto che gestire molta gente vuol dire andare un po’ in affanno sia di risorse che in termini di energia fisica”.

(Getty Images)

Qual è l’età delle vittime e dei contagiati da Covid-19?

“Varia. Solitamente le persone anziane sono più soggette perché c’è una concomitanza di più patologie. Ma anche i giovani possono essere e sono contagiati. È un virus abbastanza democratico sia in termini di età che di differenziazione di tipologia. Solitamente tende a colpire un po’ meno le donne”.

Perché?

Interviene la dottoressa C.G.: “Per una questione recettoriale: questo virus si attacca ad alcuni recettori che sono meno espressi nelle donne”.

State andando protette al lavoro?

Riprende la parola l’infermiera G.L.: “Sì, i dispositivi di protezione individuale arrivano a ondate alterne e comunque tendenzialmente siamo ben protetti. Noi, a differenza forse di altri presidi ospedalieri, abbiamo delle camere a chiusura ermetica. C’è una pressione positiva nelle stanze, che tende a far schiacciare le particelle aeree per terra. È un’ottima cosa perché è un virus che tende a stare nell’aria. Così facendo le particelle tendono a rimanere per terra e c’è meno possibilità di inalarle”. 

G.L., hai paura quando vai al lavoro?

“Sì ma il panico non mi viene quando sono al Cotugno ma dopo quando torno a casa pensando a qualche gesto inconsapevole che posso aver compiuto. Mi sono messa poi subito in auto isolamento perché potrei essere veicolo di infezione per qualcuno. Ma rimane la paura di infettarmi e non avere la possibilità di salutare nessuno. Lo vedo nei miei pazienti che nell’arco di poco tempo peggiorano e vedi nei loro occhi la loro paura. Tante cose mi portano a pensare che mi sia infettata. Per quanto riguarda l’attività lavorativa di per sé, guardo molto ai pazienti, al contatto umano. Sotto le tute non ci distinguono ma siamo gli unici contatti umani che hanno con l’esterno”.

Ma ci sei andata lo stesso al Cotugno però nonostante la paura…

“Sì, io vado con entusiasmo. Certe volte capita che fai una battuta, il paziente ti fa un sorriso o una risata e sembra che hai smosso una montagna, ti senti utile. A livello emotivo è un’altra cosa quest’emergenza rispetto ad altre malattie, in tutto il personale sanitario”.

Adesso la parola passa al medico di emergenza territoriale del 118, C.G.:

“La nostra situazione è diversa, noi stiamo inguaiati rispetto all’azienda ospedaliera dei Colli e del Cotugno. Noi lavoriamo per strada. Lavoro al 118 e mi occupo di emergenze in generale. Non abbiamo abbastanza protezioni per i casi. Per qualsiasi tipo di emergenza, dall’infarto all’edema polmonare, dobbiamo trattare i pazienti con la paura che abbiano anche il Covid-19 e quindi possano trasmetterci il virus. Purtroppo la distribuzione di dispositivi di protezione individuale da noi non è così capillare. Lavoro nell’azienda sanitaria di Caserta e non possiamo sprecare risorse che sono molto poche. Dobbiamo centellinare bene quando e su quali casi usarle. Stiamo per strada ed entriamo in casa della gente, che a volte, per farsi visitare mente sui sintomi. Noi ci troviamo lì non essendo adeguatamente protetti. Questo non vuole essere una polemica dato che non c’è stato finora nessun caso di Covid-19 né tra i medici, né tra gli infermieri, né tra gli autisti. Abbiamo fatto i test rapidi ma non i tamponi. Chi lavora in un reparto Covid ha completamente dedicato la sua vita a questo. Ma noi ci ritroviamo tra le vittime anche giovani morti di altre patologie: l’altro giorno siamo andati a casa di un uomo che era morto per un infarto a 45 anni e non si era recato all’ospedale per paura del contagio. Questa è l’altra faccia della medaglia. Si trascura il resto delle patologie che sono sempre esistite. Noi del 118 ci troviamo a gestire cose che non sono di nostra competenza ma che spettano ai medici di base ma che non lavorano in questo periodo perché non hanno ricevuto i dispositivi di protezione”.

Pensa di avere il Covid invece muore per altro Foto dal web

A te capita di tutto, ma a proposito del Covid-19, vi sono capitati casi? 

“Sì. Quando andiamo a prendere un paziente sospetto per visitarlo o semplicemente per assicurarci che le sue condizioni ci permettano di lasciarlo a casa, noi dobbiamo subito dopo andare a sanificarci e sanificare l’ambulanza e questo vuol dire togliere un mezzo dal territorio per alcune ore utile a gestire l’emergenza. Noi qui nel casertano abbiamo organizzato alcune tende per i pronto soccorso per i sospetti di Covid-19 ma in una tenda ci puoi mettere uno o due pazienti. Gli altri vengono bloccati e aspettano anche molte ore prima che siano visitati. E meno male che non abbiamo avuto l’emergenza che c’è stata in Lombardia. Saremmo andati al collasso. Interi ospedali sono stati dedicati interamente al Covid-19. A Napoli il Loreto Mare e nel casertano l’ospedale di Maddaloni. A tutto questo si aggiunge il lato psicologico, siamo tutti in isolamento, non vediamo la famiglia, gli amori, le amicizie per paura del contagio”.

Interviene ancora G.L.: “Ti rendi conto di quanto ti manca un abbraccio, un bacio, anche solo sulla guancia. Gesti talmente banali che acquisiscono un’enorme importanza. È dura tornare a casa ed essere soli pertanto tu possa fare una telefonata o una video chiamata. Speriamo che non ci siano altri picchi e che la situazione vada a scemare sempre di più. In questi giorni di Pasqua ho visto troppa gente per strada e sono preoccupata della possibilità di un altro picco, la gente sottovaluta la situazione ed esce perché è più di un mese che sta chiusa in casa”. 

C.G.: “Facciamo ancora 500 morti al giorno, non siamo usciti dall’emergenza. I pronto soccorso sono ancora pieni. Ci sta poco da essere ottimisti. In Campania c’è ancora un aumento dei contagi e già così il sistema sanitario è al collasso. Bisogna ascoltare chi vive in queste situazioni non solo i mass media”.

farmaci Covid-19 (Getty Images)

G.L.: “E quando torni a casa te li fai i pianti. A me è capitata una persona sotto i 50 anni che non ce l’ha fatta. La sua situazione al Cotugno è precipitata velocemente e i suoi familiari non hanno potuto vederlo e salutarlo. Il fatto di non poter salutare una persona cara è una cosa che mi ha preso molto. Noi due, io e C.G. ci confrontiamo molto essendo nello stesso ambito professionale. È difficile non portarsi a casa certe emozioni. Cerchiamo di mantenere alta la razionalità ma è dura per noi per l’impatto emotivo. Non per il nostro lavoro ma è proprio il contesto che lo avvolge. Quando un paziente invece guarisce sembra che hai afferrato con un laccio una stella e l’hai portata sul pianeta terra. È bello ed è brutto quando li perdi. I primi tempi piangevo tutti i giorni. Vorremmo far arrivare a tutti il messaggio di non abbassare la guardia. Rimanere a casa e arginare la diffusione del virus è importante quanto quello che facciamo noi. Questo è il nostro lavoro, né più né meno, non siamo eroi. Per questo abbiamo voluto rimanere anonime. Non c’è nessun atto di eroismo, è il nostro lavoro e ci piace farlo altrimenti avremmo fatto altro nella vita. Si sta abbassando la guardia. La gente deve rimanere a casa. Noi vogliamo i dispositivi di protezione, non vogliamo nessuna onorificenza. Vogliamo lavorare in maniera tutelata e in sicurezza perché se ci ammaliamo noi, chi li cura gli ammalati”?

Federica Massari

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