Il Dottor D’Alessio, responsabile dell’Unità Operativa di Medicina Interna del Policlinico San Marco esalta la terapia del Ruxolitinib come farmaco sperimentale sui malati di Covid
“Non era possibile accettare morti precoci durante la Pandemia e alla fine l’impegno ha dato la svolta inaspettata” – così il Direttore dell’Unità Operativa del Policlinico di San Marco, Professor Andrea D’Alessio. I mesi che hanno accompagnato la popolazione settentrionale a dover fronteggiare il nemico hanno condotto ad alcune osservazioni sulla ricerca di farmaci sperimentali per combattere la malattia. Tra questi dopo un’analisi approfondita, rientra il Ruxolitinib, promosso dall’Agenzia Italiana del Farmaco come rimedio incoraggiante contro le virulenze del nemico.
Il farmaco Ruxolitinib funziona perchè inibisce una proteina chiamata JAK, legata ai recettori dell’infiammazione delle cellule del sistema immunuitario. Grazie al suo principio molecolare, riesce a calmare l’impeto provocato dal rilascio delle citochine coinvolte durante la manifestazione dell’infezione all’interno del corpo umano. La sua efficacia si estende nelle operazioni di blocco dei recettori presenti nel virus, grazie ai quali riesce ad infettare le cellule dell’epitelio respiratorio.
La sperimentazione del Ruxolitinib risale ai tempi del paziente 0 del coronavirus, individuato in Cina e già in quella circostanza aveva dato grande risalto in termini di successo. Poi è arrivato in Italia e con la benedizione del nosocomio Spallanzani di Roma è stato approvato sul territorio a scopi compassionevoli. Ma l’attività del farmaco doveva essere di natura costante durante le terapie di assunzione altrimenti perdeva l’efficacia. Così nei pazienti ricoverati si acceleravano i processi di una manifestazione precoce del danno polmonare.
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Il Coronavirus si racchiude principalmente in due fasi: una è virale, l’altra infiammatoria. E’ proprio nell’epitelio respiratorio dove il Ruxolitinib affonda le sue radici benefiche che il virus inizia il processo di infezione. Non appena una cellula vitale viene coinvolta, il virus inizia il suo processo di diffusione. Così avviene per la maggior parte delle persone durante la fase inizale del contagio, dove si manifesta la cosiddetta dispnea. Una mancanza di ossigeno nelle vie respiratorie che va a conciliarsi con un innalzamento della temperatura corporea, colpi di tosse, raffreddore e difficoltà olfattive.
Il processo di diffusione continua fino al raggiungimento degli alveoli polmonari, dando vita alla fase infiammatoria. Una volta individuato il misterioso nemico, il nostro sistema immunitario sguinzaglia un’enorme quantità di citochine per la difesa. E’ il rilascio di queste sostanze che determina il collasso di alcuni organi del corpo umano, in quanto hanno il compito di divorare le cellule vitali, spente dal passaggio del virus. Gli alveoli dunque si riempiono di macrofagi e linfociti che vanno a deteriorare il tessuto di alcuni vasi dell’endotelio fino alla formazione di ingrossamenti dell’impalcatura che protegge gli alveoli. Una patina di protezione destinata alla distruzione che determina di conseguenza un netto peggioramento nella fase di scambio d’ossigeno.
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Lo studio condotto dal Professor D’Alessio e dai ricercatori esperti in materia virale arrivano dunque ad una conclusione. Se la malattia si fermasse alla prima fase, oggi non conteremo tanti morti nel mondo.
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