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Nell’aprile del 1991, Pietro Maso, con tre suoi amici, massacrò i genitori nella sua villa di Montecchia di Crosara (Verona).
L’intensificarsi e la fine della Guerra del Golfo, la strage del Pilastro, ad opera della Banda della Uno Bianca e la tragedia della Moby Prince, questi sono solo alcuni degli avvenimenti più cruenti che contraddistinsero il 1991. Tra questi si colloca anche uno dei crimini più efferati della storia italiana: il massacro di Montecchia di Crosara nel quale vennero uccisi i due coniugi Antonio Maso e Mariarosa Tessari. A commettere il duplice omicidio furono il figlio della coppia, Pietro Maso, ed un gruppo di tre amici.
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Nella notte tra il 17 ed il 18 aprile 1991 una chiamata arriva ai carabinieri nella provincia di Verona. Dall’altra parte della cornetta una voce spiega che ci sono due cadaveri in una villetta di Montecchia di Crosara, piccolo comune nel veronese di circa 4mila anime. I militari dell’Arma si precipitano sul posto e trovano i corpi senza vita di Antonio Maso e Mariarosa Tessari, due coniugi rispettivamente di 56 e 48 anni. Le due vittime, come emergerà dai successivi accertamenti, ma come si evince anche dai primi rilievi, sono stati massacrati con ripetuti colpi inferti con oggetti contundenti e poi strangolati. La casa è completamente a soqquadro: cassetti svuotati, vari oggetti sul pavimento ed il contatore della luce staccato. A rinvenire i cadaveri il figlio della coppia, Pietro Maso, di 20 anni che accortosi di quanto accaduto, spaventato, ha chiesto auto ai vicini.
Gli investigatori avviano immediatamente le indagini, mentre il massacro finisce sui giornali ed i notiziari continuano a mandare in onda le immagini del traghetto Moby Prince, l’imbarcazione incendiatasi dopo una collisione con una petroliera causando la morte di 140 persone. La strage più grave della storia marina mercantile italiana. Tutti, non solo in paese, si interrogano su chi possa aver commesso un simile delitto. Ai carabinieri e ai vari giornalisti giunti nel comune in provincia di Verona, Pietro racconta di essere tornato a casa dopo una serata tra amici e di aver trovato le porte aperte. Entrato nella villetta ha visto spuntare delle “gambe” ed impaurito ha chiamato i suoi vicini di casa.
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Le prime piste battute dagli inquirenti si focalizzano su quanto fornisce a primo impatto la scena del crimine: una rapina culminata nel sangue. I carabinieri intanto scavano nella vita delle vittime per cercare di capire quale possa essere stato il movente di un simile omicidio, compiuto, come riferiscono i giornali dell’epoca, con una furia inaudita. In pochi giorni le indagini dei carabinieri cambiano direzione e si concentrano sul figlio delle vittime. Ad influire sono alcuni particolari della scena, come i vestititi nei cassetti sparsi per casa ed alcune incongruenze legate al conto corrente dei Maso. Qualche giorno prima, difatti, era stato firmato un assegno dal libretto di Mariarosa Tessari da 25 milioni di lire a favore di Giorgio Carbognin, amico 18enne di Pietro Maso.
I carabinieri torchiano il ragazzo che a due giorni dal delitto, durante i quali aveva fornito versioni contrastanti, confessa ed ammette di aver ucciso i genitori. Nel mirino degli inquirenti erano finiti oltre a Maso e Carbognin anche altri due amici Paolo Cavazza, 19enne e Damiano Burato di 17 anni che pian piano ammetteranno le proprie responsabilità. I quattro vengono arrestati ed accusati di omicidio volontario che presto si tramuterà in duplice omicidio volontario premeditato pluriaggravato.
Con il passare dei giorni si ricostruiscono le dinamiche del massacro ed il movente alle sue spalle. Pietro Maso è un giovane a cui piace la vita mondana: donne, discoteche e abiti firmati sono la sua quotidianità ed il suo unico pensiero. Maso ed i tre amici si ritrovano spesso al bar John a Montecchia di Crosara ed è proprio lì che progettano il massacro. Il gruppo aveva acquistato attraverso un prestito bancario una Lancia Delta, una delle auto più desiderate dell’epoca, ma per volere dei genitori dovettero restituirla. I soldi del prestito, però, vennero dilapidati in ristoranti e discoteche. Al momento di restituire il denaro, Maso decise di falsificare la firma della madre ed emettere un assegno a favore di Carbognin e, per paura di essere scoperto, progettò il delitto che gli avrebbe poi fatto intascare anche l’eredità.
Dalle dichiarazioni dei tre emerge anche che prima del duplice omicidio vi erano stati ben tre tentativi che non andarono a buon fine. Il primo prevedeva l’esplosione della casa mediante alcune bombole di gas attaccate ad un impianto di luci psichedeliche ed una sveglia. Il marchingegno, che Maso non ebbe il coraggio di attivare, venne addirittura scoperto dalla madre che però venne dissuasa con una scusa. Qualche giorno dopo Maso ci riprovò con l’aiuto di Carbognin, ma anche il secondo ed il terzo tentativo fallirono.
Fu il quarto che andò a segno, quando Maso ed i tre amici aspettarono i due coniugi nella villetta e li aggredirono tendendogli un agguato. Dopo il brutale massacro, il gruppo mette a soqquadro l’appartamento per inscenare una rapina finita male. Pietro e Carbognin per crearsi un alibi vanno subito in alcune discoteche della zona, mentre gli altri due tornano a casa. Poi intorno alle 2, Maso rincasa e simula il ritrovamento dei cadaveri.
Anche le dichiarazioni e le confessioni degli amici del bar John finiscono alla stampa e l’Italia, come accade molto spesso per i casi di cronaca soprattutto per quelli eclatanti si spacca. Da una parte gli innocentisti, nasce addirittura un fan club di Maso. Mentre dall’altra i colpevolisti che vogliono quel ragazzo che ha ucciso i genitori in galera. A fomentare quest’ultima fazione sono gli atteggiamenti di Maso successivi al massacro, il suo non sembrare per niente dispiaciuto ed il suo continuo sfoggio di abiti di lusso e foulard alla moda.
Il processo, durante il quale viene accertata la sanità mentale degli imputati, davanti alla Corte d’Assise di Verona per Maso, Carbognin e Cavazza inizia nel febbraio 1992, Burato verrà giudicato dal tribunale dei minori. Il dibattimento si conclude lo stesso mese con le condanne di Maso a 30 anni di reclusione e di Cavazza e Carbognin a 26. Nelle motivazioni i giudici riconoscono un vizio parziale di mente. In Appello nell’aprile del 1993 le condanne per i tre imputati viene confermata. La condanna diviene definitiva il 25 gennaio 1994 con la sentenza della Corte di Cassazione. Intanto Burato viene, invece, condannato a 13 anni dal Tribunale dei minori.
Tutti gli imputati hanno già scontato la loro pena, compreso Maso che è stato scarcerato nel 2013. Lo stesso anno esce il suo libro Il male ero io, dove racconta il delitto ed il suo percorso. Circostanze riproposte anche durante alcune interviste rilasciate dopo la sua scarcerazione.
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Nel 2016 Maso viene nuovamente indagato con l’accusa di tentata estorsione ai danni delle sue due sorelle, che vennero successivamente poste sotto scorta.
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