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Interviste

L’intervista esclusiva a Massimo Dapporto, una carriera lunga 50 anni

Massimo Dapporto si è raccontato a cuore aperto a YesLife, tra passione, lavoro e vita privata

Il prossimo 4 gennaio si appresta a festeggiare 50 anni di carriera vissuti intensamente sul palcoscenico e davanti la macchina da presa, al cinema e alla tv. Lui è Massimo Dapporto, uno dei grandi attori del nostro spettacolo che con garbo e gentilezza ha saputo farsi amare e coccolare dal pubblico che a lui è veramente molto emozionato.

Con il signor Dapporto abbiamo fatto un’intensa chiacchierata al telefono durante la quale abbiamo ripercorso le tappe più belle della sua lunga carriera e fatto una riflessione sul difficile momento che lo spettacolo italiano sta affrontando a causa dell’emergenza sanitaria.

Dapporto che è ricordato da tutti nell’intramontabile ruolo del dottor Magri di “Amico Mio” ci ha confidato che spera vivamente di terminare il suo lavoro sulle tavole di un palcoscenico, quelle che fin da piccolo ha iniziato a calpestare, seguendo le orme di suo padre.

Massimo lei ha seguito le orme di suo padre Carlo. È stato guardando lui che si è innamorato del palcoscenico e dello spettacolo?

Senza altro mio padre è stato abbastanza influente per quanto riguarda la mia scelta, anche se è stata molto inconscia. Era proprio un’abitudine stare sul palcoscenico, io quando ero piccolo stavo dietro le quinte però già calpestavo le tavole del palcoscenico. Alcune volte quando non c’era più lo spettacolo entravo in scena, al buio, e camminavo sul palcoscenico. Non me ne rendevo conto ma mi stavo abituando a stare su un palcoscenico. In più da piccolo davo già dei segnali che avrei fatto l’attore: d’estate costruivo una montagnola di sabbia, mi ci mettevo sopra e inventavo delle storie per tutti i miei amichetti che stavano seduti intorno a me e io declamavo dei versi che inventavo. Quella montagnola era già una forma di palcoscenico. Poi col tempo ho deciso di fare l’attore. Non mi è mai piaciuto studiare, non ero portato se non per le parti che studio e imparo a memoria, quelle non le dimentico. Così dopo il primo anno di università ho deciso di fare l’attore, ho fatto gli esami per entrare all’accademia, ho studiato alla Silvio D’Amico e poi piano piano ho cominciato a fare i provini e a lavorare, sempre indipendentemente da mio padre.

Suo padre voleva questo per lei?

Non era contento perché sapeva a che cosa potevo andare incontro, lui si è fatto una bella gavetta prima di avere successo, ha dovuto affrontare tante privazioni, sopportarle e pensava che anche io lo avrei fatto. Io mi sono privato dell’appoggio della mia famiglia per vedere se riuscivo ad andare avanti da solo ma devo dire che sono stato fortunato perché appena uscito dall’accademia ho cominciato a lavorare. Attraverso dei provini ho iniziato per una piccola parte e poi da allora non ho più smesso.  Mio padre non era contento ma si è poi ricreduto, mia madre mi ha dato la massima fiducia, sempre. Quando ho deciso di fare questo mestiere mio padre mi ha storto il naso, mia madre mi ha chiesto ma sei felice? Ho detto sì e lei mi ha detto “fai quello che ti rende felice”. Se mio padre non cambiava credibilità nei miei confronti dopo avermi visto mi sarei ricreduto io su di lui. Per cui se ne è andato tranquillo, a livello artistico e come genitore, mi ha detto che poteva andarsene perché aveva capito che io avevo un bel rapporto con il pubblico e il pubblico ce l’aveva con me per cui mi ha detto “vai avanti” e così sto facendo. Io il 4 gennaio del 2021 festeggerò 50 anni di attività e spero di farlo sulle tavole del palcoscenico.

Poi anche suo figlio Davide ha scelto questa strada, anche se sta dietro la macchina da presa. Lo considera un tres d’union generazionale?

Mio figlio dopo essersi laureato ha cominciato questa attività facendo l’assistente e l’aiuto regista. Adesso lui lavora per conto proprio e scrive anche delle sceneggiature. Però è molto faticosa la carriera di un regista per affermarsi. Il regista non ha una continuità. Ho parlato con Özpetek di questo e lui è stato molto onesto. Mi ha detto: “Per avere una facilità dobbiamo avere una tranquillità economica alle spalle, questo ci permette di farci stare fermi per dei periodi”. Mio figlio ce l’ha ma si è sempre dato molto da fare, anche con le sceneggiature. E sta andando per la sua strada e io sono contento perché sono convinto che abbia delle grosse potenzialità.

Come è stato lavorare con suo figlio in “Distretto di Polizia”?

Io ho evitato di dargli dei consigli sulle scene che si dovevano girare. Lui ha molto gusto e per noi è stato un rapporto professionale, io facevo l’attore e lui il regista ed eseguivo quello che lui mi diceva se la cosa mi convinceva, se no si poteva discutere. Ma è difficile discutere con mio figlio sia perché c’ha sempre ragione lui ma anche perché ha buon gusto e spesso ho riconosciuto che aveva ragione su alcune scene.

Tantissimi i ruoli che ha interpretato tra cinema, teatro e fiction. Quale più di tutti porta nel cuore con orgoglio?

Sono affezionato a diverse cose che mi hanno dato una certa popolarità come “Amico mio”, la serie “Un prete tra noi” ma quello a cui sono più legato è il personaggio di Giovanni Falcone, un film per la televisione in due puntate che mi ha dato tanto e sono legato a quel personaggio con affetto. È stato un punto bello d’arrivo per la televisione. Per il teatro ricordo sempre con affetto “la Coscienza di Zeno” di Italo Svevo e poi “Un borghese piccolo piccolo” che ho finito di portare in giro per i palcoscenici pochi mesi fa.

Sull’interpretazione del giudice Giovanni Falcone, come ha reagito quando le è arrivata la chiamata? E poi gli Emmy Award, una grande soddisfazione?

Mi ha fatto piacere, certo! Molto piacere anche perché c’erano attori americani di un certo livello. Non ho potuto partecipare alla premiazione perché stavo lavorando e non sono riuscito a vivere quella serata. Sono però dei bei ricordi e quando capitano fanno piacere.

Tra le sue interpretazioni indimenticabile è il dott. Magri in “Amico mio”, una fiction di successo che l’ha tenuta impegnata dal 1993 al 1998. Cosa ci può raccontare di quegli anni? Anche il modo di fare fiction era diverso?

Si si, era diverso. Ho lavorato con degli ottimi attori con una bella preparazione. A differenza di quello che sta accadendo ora in televisione, forse anche per i costi degli attori. Basta presentare una nuova figura come attore, perché è giovane, ha partecipato a qualche programma e il pubblico si abitua. Se quell’immagina te la impongono diventa poi un appuntamento. Ma gli attori di oggi non hanno la preparazione che avevamo noi. Sono piuttosto improvvisati, crescono in alcune trasmissioni in cui vengono invitati e si affermano. Mi stanno abbastanza deludendo nel senso che non mi sono affezionato ad un volto o ad un attore. Questo perché so che c’erano degli attori molto più preparati nella mia generazione per non dire quella precedente alla mia, e credo che stiamo peggiorando.

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Tra le tante partner con cui ha condiviso le scene ci sono due grandi donne del nostro spettacolo: Elena Sofia Ricci e Stefania Sandrelli. Che donne e che attrici sono? Come è stato lavorare con loro?

Elena la conosco da quando era ragazzina, fin da quando ha iniziato a fare questo mestiere e l’ho vista veramente migliorare e diventare una gran bella attrice, seria, preparatissima professionalmente, molto simpatica e dolce come donna. Mi ha lasciato un bel ricordo. La Sandrelli è stata molto generosa nei miei confronti. Con lei ho fatto tre lavori. Nella fiction che abbiamo fatto per Canale 5 io avevo una parte vicino a lei e qui mi ha lasciato molto spazio e mi incoraggiava ad aumentare il mio personaggio. Una collega che ti lascia spazio in questo mestiere vuol dire che è di una generosità unica. Sono stati due belli incontri.

Per lei anche tanto teatro, anche con grandi classici come Otello e Zeno. Qual è la soddisfazione più grande che le dà il palcoscenico?

Le soddisfazioni sono due: sentire che il pubblico è dalla tua parte e che tu sei credibile per il pubblico, sia che presenti una commedia che una tragedia. A volte un attore porta avanti un cliché, c’è quello impegnato e serio, quello che è un comico perciò quando si va fuori dal proprio cliché e sorprendi il pubblico, il pubblico può rifiutare che tu abbia lasciato il tuo vecchio cliché oppure se tu sei credibile e il pubblico apprezza ti dà una grande soddisfazione. E poi c’è quella di sentire che la tensione del pubblico è tale che si mostra con un silenzio ecclesiastico e da rito. È una soddisfazione tale che ti viene un brivido addosso perché senti di essere importante per quelle persone che ti seguono e sono attente a quello che dici e che fai.

Ma fare l’attore oggi cosa significa per Massimo Dapporto?

Dopo 50 anni di questo mestiere.. non me lo sono mai chiesto! Per me è una cosa che m’è venuta naturale, la fortuna della mia vita. Io sono stato uomo fortunato, e lo dico tutti i giorni, ho fatto quello che mi piaceva nella vita, ho goduto sempre di buona salute e non è una stupidaggine. Spesso sentendo questo c’è chi ride e dice “Come sei antico!”. Ma non è così, puoi avere miliardi ma se non stai bene di salute non ti puoi godere niente. Per cui sono stato fortunato in questo senso, salute e lavoro, ho avuto una buona famiglia. Mi sono sposato il primo giorno di lavoro per cui il prossimo gennaio saranno anche 50 anni di matrimonio.

Lo spettacolo ha subito uno stop forzato, che periodo è stato per lei?

Io ho fatto l’ultima replica di “Un borghese piccolo piccolo” in una zona rossa quando ancora non si sapeva che lo sarebbe diventata. L’ho fatta a febbraio a Monza, dopo l’ultima replica ognuno è tornato nelle proprie case e dopo circa 10 giorni è scoppiata la pandemia. Siamo stati fortunati perché siamo riusciti a lavorare fino in fondo. Adesso si presenta una situazione ancora grave perché finché non ci sarà un vaccino siamo tutti a rischio. Per il teatro ci sono stati dei tentativi di fare spettacolo. Lo hanno fatto a Torino con 200 persone. Ma questo è un problema comunque perché questi numeri non permettono di fare incasso. Allora o interviene lo Stato con dei finanziamenti da distribuire a pioggia alle compagnie teatrali oppure non credo che sia un esperimento che può essere coronato dal successo quello di tornare in scena e riaprire le porte dei teatri al pubblico con un numero così basso di posti a sedere.

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Si è parlato molto del fatto che il Governo abbia considerato poco il mondo dello spettacolo. Lei si sente abbandonato?

Lo spettacolo è stato preso sottogamba ma anche un po’ in giro. Non si può dire che i teatri riaprono dicendo alla gente “andate a teatro”. Solo 200 persone, a giugno quando la gente se ne va al mare, quando non è più mese di lavoro per la stagione teatrale, perché si riprende a settembre con le prove? Sì, è una presa in giro. Si è detto sì aprite, ma per chi? Chi ci viene a teatro di questi tempi? Come tanti campi in Italia ci sono politici che sono responsabili di settori che non conoscono. E un settore come quello dello spettacolo deve essere gestito da qualcuno che sa la materia che deve affrontare, il ministro deve sapere di teatro, di cinema, di televisione, di balletto, di operetta. Deve saperle queste cose perché è facile dire aprite i teatri ma se poi le condizioni non garantiscono l’incasso che senso ha? Parlo di incasso perché mi metto dalla parte della produzione.

Come se lo immagina il futuro prossimo?

Non lo so, penso che finché ci sarà ancora il problema del coronavirus saremo sempre più legati alla televisione, il teatro anche in televisione.

Lei ha dovuto stoppare qualcosa che era già in programma?

Io avevo due spettacoli da fare, uno a Napoli e poi un testo divertente e comico di un autore francese in collaborazione con il teatro Parenti di Milano, sono entrambi saltati. A gennaio avrei dovuto fare un altro lavoro con Daniele Liotti e chissà se si farà.. Noi facciamo degli esercizi di ottimismo. Ci incontriamo, qualche giorno fa abbiamo fatto la prima lettura del testo con gli altri colleghi, ma non sappiamo se si potrà portare in scena veramente. Bisogna essere realisti, è tutto così precario ed improvvisato per il nostro mestiere. Io non ne posso più di questa situazione, ognuno dà il suo parere, c’è chi è ottimista, chi pessimista, vedremo come si evolve. Io spero tanto che questo vaccino prima o poi esca fuori e sia valido. Col fatto che ho 50 anni di carriera non è che la cosa mi turba tantissimo, però mi dispiace se dovessi chiudere anzitempo, senza che decida io di chiudere, spero che non succeda. Lo spero per me e per i miei colleghi.  Perdere del tempo per noi è importante, per i giovani meno.

Francesca Bloise 

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