Stefano Chiodaroli si è raccontato a cuore aperto a YesLife, la gavetta nel mondo del teatro, la nuova idea del linguaggio della comicità e la sua passione per la pittura
Oggi abbiamo avuto il grande onore di intervistare Stefano Chiodaroli, varesotto doc, comico brillante dalla personalità sensibile e attenta a quelli che sono gli sviluppi umani che condizionano e temprano il suo lavoro. La bella chiacchierata con lui ha spaziato da come è entrato a piccoli passi, anche con un certo timore, nel mondo dei teatri fino alle sue apparizioni cinematografiche e la sua idea di quello che sarà il prossimo teatro di qualità.
Buongiorno Stefano, raccontaci un po’ di te. Non esordisci subito come comico, ma solo a 34 anni. Hai sempre avuto questa vocazione da giovanissimo?
Buongiorno a voi. La risposta è composita perché ho sempre avuto un po’ la verve del mattatore, imitatore e organizzatore di spettacoli però non è stato questo che mi ha spinto a farla diventare subito la mia professione. Sono state tante piccole scelte iniziate in gioventù che poi da adulto mi hanno permesso di concretizzare la mia passione. Ad esempio la scelta di iscrivermi alla scuola di teatro Mimodramma Arsenale dove mi sono diplomato nel 1990, oppure la scelta di trascorrere i sabati o le vacanze estive nei teatri a preparare spettacoli invece che uscire con gli amici o ancora di partecipare a Festival internazionali come quelli Arcangelo in Russia e di Le Puy-en-Velay in Francia. Nessuna di queste è stata decisiva ma nel complesso hanno tutte contribuito a formarmi come comico.
Il pubblico ti conosce principalmente per la tua partecipazione a Zelig. Ci racconti com’è stata l’esperienza di recitare su quel palco ma soprattutto cos’hai provato quando ti hanno convocato?
L’esperienza con Zelig non è stata sicuramente facile. Ero un talentuoso e volenteroso ragazzo di paese con grande insicurezza e timidezza, ho avuto diversi inizi promettenti ma difficili perché mi mancava l’esperienza del contatto diretto col pubblico e questo per un comico può essere un grande problema. Sicuramente quella di Zelig è stata un’emozione grande: la prima volta che sono andato in onda al termine dell’esibizione mi sono chiuso in bagno per riprendere fiato. Sono una persona forte adesso che ho 56 anni, ma la tempra si costruisce. Ora sono molto meglio di quando avevo 26 anni e sono cosciente di essermi costruito nel tempo con l’esperienza sul campo.
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Qual è il personaggio che meglio ti rappresenta? Ha subito un’evoluzione nel tempo?
Allora il personaggio che mi rappresenta meglio è quello che ha anche dei parametri meno rigidi, ovvero il Mago Abatjour perché è effettivamente una maschera che uso per fare lo stupido e dire ciò che mi passa per la testa. Ma ci tengo a dire che il ruolo delle maschere nel teatro non è nascondere ma di svelare ancora di più e questo negli spettacoli che porto in scena è svolto proprio dal Mago. Esiste infatti un misunderstanding nel teatro in cui si pensa che la maschera venga indossata per nascondersi ma questa non fa altro che accentuare una ricchezza emotiva che c’è dentro l’attore. La maschera del Mago Abatjour serve a me per mettere a fuoco e stigmatizzare ancora di più certi aspetti della vita che altrimenti resterebbero celati dall’ego dell’attore.
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I tuoi numerosi personaggi sono frutto di esperienze dirette nella quotidianità (es. Panettiere, Tempesta Ormonale, Ornello, ecc.). Ci racconti qualche aneddoto che ti ha ispirato?
I miei personaggi sono davvero il frutto di quello che mi passa per la testa, sono suggestioni che mi vengono e che spesso non sto neppure troppo a concettualizzare o spiegare. Mi suscitano qualcosa, sento dentro delle forti corrispondenze e una ricchezza emotiva che mi dà degli stimoli e io mi ci tuffo per crearne qualcosa. C’è un aneddoto molto carino dietro la maschera del Mago Abatjour: ero al matrimonio di mia cugina, mi sono ubriacato e ho iniziato ad improvvisare una serie di scenette che erano il frutto di tutte le esperienze teatrali che mi ricordavo di aver visto in giro. Ovviamente poi mi sono rivisto nei filmini che mi hanno fatto e quindi ho copiato me da ubriaco. Sono una persona eclettica nel catturare informazioni, sono come un cane selvatico che va in giro e raccatta quello che gli serve. A volte si pensa che ci sia un team creativo dietro la figura di un comico o un attore ma spesso le cose nascono diversamente.
Nel 2005 hai esordito come attore cinematografico con la sitcom “Belli dentro” su Canale 5. Ma all’attivo ti abbiamo visto recitare anche in altre pellicole, Aspirante Vedovo, Outing, On Air, Solo per il Weekend, La febbre, Cado dalle nubi, Vallanzasca e l’ultimo Te lo dico pianissimo del 2018. Com’è stato cimentarsi con il cinema?
Il cinema è molto bello: la tv ti consuma l’immagine mentre il cinema la cristallizza, se hai fatto qualcosa di buono rimane per sempre e per qualche strana magia non viene consumata. Il cinema è un’esperienza che ho sempre voluto provare sia per vanità personale che per curiosità umana. Se nel teatro io ho in mano il gioco della situazione, nel cinema mi devo fidare ciecamente del regista, è quasi un’esperienza sensuale perché ciò che fai è la percezione di un altro che ti osserva e non quella che hai tu dello spazio e di te stesso.
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Hai recitato sia a teatro che al cinema con molti attori ma con chi hai legato di più? Per esempio con Lucia Vasini ti abbiamo trovato sia a teatro con la pièce “Il clan dei divorziati” e al cinema con “Te lo dico pianissimo”.
Con Lucia Vasini in teatro ci lavorerei tutta la vita perché ci siamo sempre fatti delle grandissime risate, abbiamo grandissime affinità caratteriali. Ma mi sono affiatato molto anche con Alfredo Colina e Rossana Carretto con cui stiamo allestendo la commedia scritta da Marco Posani “La battuta atomica”. Con lo stesso Alfredo ho partecipato ad un’altra commedia “Jena Ridens” in cartellone per diversi anni e mi sono trovato sempre molto bene. Comunque ci tengo a dire che mi piace lavorare con attori che sanno improvvisare e sono talmente padroni dello spazio e del loro personaggio per cui anche un piccolo cambio o intoppo non li disorienta.
Ad ottobre scorso eri coinvolto nella rassegna “Risate da Oscar” al teatro di via Lattanzio a Milano. Hai portato in scena Breaking bread, il tuo spettacolo in divenire con tutti i tuoi personaggi al seguito, ma hai anche inserito il monologo. Come mai?
Perché più vado avanti e più il mio bisogno di raccontare in maniera pungente e comica gli aspetti della mia vita prende il sopravvento. È indubbio che personaggi come il Panettiere, Ornello ex fotomodello, Tempesta Ormonale hanno raccontato delle suggestioni forti della mia vita che erano importanti qualche tempo fa: ora l’emozione più forte che sto vivendo è scandita dal mio matrimonio e dalle mie due figlie che arricchiscono sempre di nuovi stimoli il mio racconto. Sento il bisogno di non avere più maschere ma entrare direttamente in scena con il mio racconto personale. Tengo ancora una maschera addosso, quella di un Chiodaroli “cattivo”, anche se non lo sono affatto. “Breaking bread” è infatti un’allitterazione della famosa serie “Breaking dead” in cui il panettiere diventa più pungente. Non nascondo che questo spettacolo è un tentativo di andare verso un nuovo linguaggio della comicità, quello della stand-up comedy, in cui lasciare andare un po’ i personaggi della tv che compaiono per pochi minuti e poi scompaiono, come abbiamo visto in Drive In o Colorado.
Pensi sia cambiato il cabaret rispetto a quando hai iniziato tu nel 1995?
Il cabaret è finito nella dimensione commerciale con cui lo abbiamo visto. Il cabaret è una piccola parte del mondo dello spettacolo che si chiama varietà, e negli anni Novanta l’incontro di questo con la tv commerciale ne ha solo ingigantito le potenzialità. Questa cosa mi ha portato molta fortuna ma ritengo sia un’ipertrofia ora: il valore del cabaret ha più senso se sta dentro il varietà per i ballerini, i cantanti o presentatori. Ora la comicità sta tornando ad essere una possibilità di raccontare le persone dentro una varietà composta di musica, ballo, immagine, ovviamente con degli altri numeri. E poi il cabaret era nato per essere allestito nei locali dopo le 23 e solo per un pubblico adulto, negli ultimi anni invece sembrava essere diventato un intrattenimento per famiglie, ma quello lo fanno i clown al circo. Io preferisco lavorare per un pubblico inferiore in cui ho meno pressione, rispetto ad un pubblico familiare dove le possibilità di raccontarsi sono esigue a causa di aspetti morali ed etici da rispettare.
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Il lockdown è stato pesante per tutti, come lo hai vissuto?
Il lockdown non è stato pesante per me. Ho un bel cane lupo che portavo a spasso 3-4 volte al giorno e inoltre mi sono adoperato come volontario della Croce Rossa per fare delle dirette almeno due volte la settimana e questo mi ha permesso di essere sempre molto attivo. Il blocco penso ci abbia fatto capire le cose a cui dare importanza davvero: di solito nella vita ordinaria sono le cose urgenti che prendono il sopravvento su quelle importanti. Ho sempre preservato dei ritmi regolari durante il lockdown cercando di mantenere un equilibrio con lo stile di vita che ho tutti i giorni. Ho avuto tempo di finalizzare molte cose relative il mio lavoro e concentrarmi per alcune produzioni. Sono convinto che la vita vada vissuta nell’oggi e se c’è della felicità vada scovata in ogni condizione, anche se difficile. Ho provato a dare qualità al mio tempo a prescindere dalla situazione in cui mi trovavo, senza pensare al futuro, e questo ha dato grande qualità alle mie giornate.
Che programmi hai nel prossimo futuro invece? Teatro o cinema?
Prima accennavo alla commedia “La battuta atomica” scritta da Marco Posani che dovremmo portare in cartellone l’anno prossimo, come anche un’altra pièce teatrale scritta da Carlo Negri “Lui e l’altro”, questa però è un’opera drammatica. Ho scritto un film insieme agli sceneggiatori e registi Riccardo Paoletti e Donato Pisani “8 settembre” per il quale stiamo cercando l’attenzione di diversi produttori. Io sono anche pittore e sto allestendo per la seconda parte del 2020 e l’inizio del prossimo, diverse mostre – dal titolo “Battaglia d’Occidente” – in cui esporrò i miei acrilici. Il primo appuntamento sarà a Busto Arsizio per fine mese. Ho iniziato a dipingere quando il cabaret era diventato un genere per famiglie e mi sentivo meno libero di dire ciò che pensavo, mentre nella pittura potevo essere sincero fino in fondo con me stesso. Questo non vuol dire che io sia un grande pittore ma se c’è un luogo in cui io esprimo arbitrariamente e in modo diretto quello che mi passa per la testa, questo è la pittura.
Arianna Babetto
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