Negli anni compresi fra il 1987 e il 1994 i componenti della Banda della Uno Bianca hanno messo in atto una serie di rapine e omicidi che hanno sconvolto l’intero paese.
Come in tutte le vicende criminali e terroristiche, l’orrore, la rabbia e lo stupore sono i protagonisti primari per chiunque abbia vissuto questi tragici fatti o, comunque, per chiunque ne sia a conoscenza. Ma lo stupore questa volta è diverso. È maggiore. Lo stupore qui, assume il ruolo principale. Non è banale. Non è il solito stupore che ci porta alla fatidica domanda che, in questi casi, sorgerebbe spontanea a chiunque; perché? Perché tanta crudeltà? Perché persone innocenti? Perché? No. Lo stupore qui non ha niente a che vedere con l’orrore, il disgusto. Lo stupore, così forte, così coinvolgente, è dato dagli attori principali di questa storia. Dai protagonisti. Si, perché questa volta i cattivi non erano i soliti criminali disgraziati. No. Questa volta i cattivi erano i buoni. Erano coloro che avrebbero dovuto proteggerci, difenderci, che avrebbero dovuto combatterlo il male. Erano quelli da chiamare quando si è in pericolo. Quelli che hanno giurato fedeltà allo stato e alle istituzioni. Erano persone fidate. Persone di cui nessuno mai dovrebbe dubitare. Persone su cui bisognerebbe poter contare, sempre. Erano poliziotti.
Roberto Savi “il corto”, 40 anni, sposato e con un figlio. Lavora alla centrale operativa del 113 e, grazie a questo, conosce tutti i piani quotidiani della questura. È il capo della banda, furbo, intelligente e determinato.
Fabio Savi “il lungo”, 34 anni, separato e con un figlio. L’unico dei fratelli a non essere un poliziotto. Un criminale spietato, capace perfino di ridere nelle aule del tribunale di fronte ai parenti delle vittime che lui stesso ha ucciso.
Alberto Savi, 29 anni. Lavora al commissariato di Rimini. Viene considerato il “fratello debole”, decisamente succube degli altri due.
Finite le presentazioni, passiamo ai fatti.
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La storia comincia con il primo colpo del 19 giugno 1987. Una rapina ad un casello autostradale. Da qui è stato un susseguirsi incontrollato. In 4 mesi hanno effettuato 13 colpi, per un totale di 90milioni di lire rubate. “Vinta la paura… ci si ritrova a farne una dietro l’altra senza neanche accorgersene” ha commentato poi Fabio Savi. Il modus operandi è più o meno sempre lo stesso. Alberto resta in macchina. Fabio e Roberto scendono, uno dei due entra, commette la rapina e l’altro lo copre.
Il primo omicidio risale ad una sera del 3 ottobre 1987. Il primo, purtroppo, di una lunga serie. È iniziato tutto per colpa di alcune fatture non pagate a Fabio Savi da parte di Silvano Grossi. Così facendo, “il lungo” era rimasto con alcuni debiti da pagare e pochi soldi in cassa. Lui stesso sostiene di essersi sempre comportato bene fino a quel momento. Sempre in maniera onesta. “Io ce l’avevo col mondo intero in quel momento” ha detto poi a Storie Maledette di Franca Leosini. Disperato e arrabbiato, chiede aiuto ai fratelli poliziotti e, insieme, preparano la vendetta. Prima le minacce, poi l’estorsione. Il signor Grossi avrebbe dovuto imboccare l’A14 e fermarsi sotto ogni cavalcavia; attendere per un minuto e se non fosse apparso niente poteva ripartire e ripetere la stessa cosa sotto a quelli successivi. Fin quando in uno di questi gli viene calata una valigetta in cui avrebbe dovuto deporre 30mila lire. Con lui però c’è anche una macchina della polizia, presenza poco gradita dai fratelli Savi. Nonappena si sono resi conto della spiacevole compagnia, hanno aperto il fuoco, uccidendo così il sovrintendente Mosca, seduto dal lato del passeggero. Mosca, lavorava al commissariato di Rimini; lo stesso di Alberto Savi.
In questo periodo 4 persone vengono arrestate per le rapine commesse ai danni dei caselli autostradali. Ed è probabile che qualcuna l’abbiano anche commessa, ma l’errore più grande è stato quello di attribuirgli poi anche gli altri reati, effettuati, in realtà, dai fratelli Savi. Questo però, si scoprì solo 7 anni più tardi. Intanto, i veri colpevoli sanno di essere al sicuro.
Come ogni criminale che si rispetti, anche la Banda della Uno Bianca vuole ampliare i propri orizzonti. Inizia così il periodo delle rapine ai portavalori della catena dei supermercati Coop. Colpivano a fine giornata, quando è il momento di ritirare l’incasso. Rapina dopo rapina l’attività si fa sempre più intensa e capiscono di aver bisogno di aiuto. Così Roberto Savi recluta un paio di colleghi che sicuramente non avrebbero rifiutato. È il caso di Luca Vallicelli, ad esempio, poco più di 20enne, e Marino Occhipinti. Decidono così di usare 3 macchine, per avere 3 direzioni di fuga. Aumentando i componenti della banda aumentano anche i guadagni, ma aumentano persino i morti. Solamente fra l’inizio del 1988 e l’estate del 1989 hanno ucciso 2 Carabinieri, 2 guardie giurate e un testimone, Adolfino Alessandri, un pensionato di 53 anni. Era il 26 giugno 1989, e dopo aver udito il rumore di un’esplosione, Adolfino, decise di avviarsi verso il luogo da cui proveniva quel frastuono. Nel tragitto s’imbatté nella Banda della Uno Bianca decisa a sparare a chiunque provasse anche solo ad affacciarsi dal balcone. “Cosa fate delinquenti, perché sparate?” questa è stata la frase che è costata la vita di Adolfino Alessandri.
Il 6 ottobre 1990 avviene l’omicidio di Primo Zecchi, 51 anni. Un caso che ha particolarmente colpito l’interesse pubblico proprio per il modo in cui è avvenuto. Quel giorno, al di fuori di ogni aspettativa, la banda non ha elaborato un piano raffinato per svaligiare i portavalori di importanti supermercati, no. Ha rapinato una tabaccheria per 700mila lire. Primo Zecchi ha assistito alla parte finale della rapina ed era intenzionato a segnare i numeri di targa. La macchina tanto era rubata ma questo non sembra essere un motivo valido per lasciare in vita l’uomo. Tornano indietro apposta per ucciderlo. Non avevano paura della sua testimonianza. Nessuno sarebbe potuto risalire a loro attraverso la targa di una macchina rubata. Il motivo celato dietro questo omicidio è molo più fine. È un messaggio. Un messaggio per chiunque, in futuro, avesse avuto anche solo la metà del coraggio che ha avuto Primo Zecchi.
Nel frattempo Vallicelli e Occhipinti sono usciti dalla banda, sostituiti da Pietro Gugliotta. Cominciano così gli omicidi a sfondo razzista. Nel solo dicembre del 1990 causano 4 morti e 14 feriti. Colpiscono sempre con la stessa arma: il fucile AR70 Beretta, modificato, per non lasciare bossoli a terra.
Venerdì 4 gennaio 1991 si verifica quella che conosciamo come La Strage di Pilastro, uno dei quartieri più malfamati di Bologna. Quella notte era di ronda una pattuglia dei Carabinieri, composta da 3 giovani militari, a causa delle continue aggressioni a sfondo razzista che si stavano verificando. Ad un certo punto, sorpassano una Fiat Uno bianca. La banda era in cerca di qualche extracomunitario a cui sparare, invece, ha trovato 3 giovani Carabinieri. Nel giro di pochi istanti è iniziata una sparatoria che disgraziatamente non ha visto le forze del bene come vincitori. I 3 Carabinieri non hanno avuto scampo.
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Nel giugno del 1992 si ha una svolta nelle indagini. Sembrerebbe che siano riusciti a trovare i colpevoli della strage di Pilastro. Si tratterebbe dei fratelli Santagata, pregiudicati del quartiere. La testimonianza di una 17enne che sostiene di aver visto Peter Santagata coinvolto nell’eccidio era, ovviamente, falsa. Ma mentre il processo va avanti per mesi, la banda continua ad agire indisturbata.
La pista giusta da seguire era quella delle armi. Sul luogo della strage di Pilastro infatti hanno trovato i bossoli appartenenti ad una AR 70 calibro 222. Riescono così ad ottenere facilmente una lista di 30 persone che possiedono questo tipo di arma a Bologna e provincia. Al 26° posto, c’è il nome di Roberto Savi che ne possiede due. Vedendo che un collega ha lo stesso modello dell’arma del delitto usata nella strage, gli viene chiesto di portarla in questura per poterla studiare. Roberto Savi, furbamente, non porta quella utilizzata, che aveva già la canna scoppiata, ma l’altra.
Decidono quindi di colpire l’armeria di Licia Ansaloni in Via Volturno, in pieno centro a Bologna. Fabio entra. Roberto resta fuori e lo copre. Prendono due pistole Beretta e alla richiesta di aprire la porta, il commesso dell’armeria, ex Carabiniere, mette una mano sotto al bancone esclamando: “voglio vedere adesso come fai ad andare via, stanno arrivando”. Neanche il tempo di finire la frase ed è per terra con una pallottola nel petto. A quel punto Fabio si rivolge alla donna, la proprietaria, ordinandole di aprire la porta. Quando il criminale è ormai sull’uscio intento ad andarsene Licia Ansaloni lo minaccia “tanto ti prendono, ti ho riconosciuto hai l’accento di Rimini, ci metteranno poco a trovarti”. A questo punto è diventata una testimone. Ed esattamente come nel caso di Primo Zecchi il suo destino da quel momento era segnato. In questa rapina però succede qualcosa di inaspettato: una passante ha visto Roberto Savi fuori dall’armeria e ha fornito alla polizia un identikit. Questo si è rivelato estremamente fedele alla realtà. Era quasi impossibile non riconoscere la persona ritratta. Tant’è che una volta arrivato a Luciano Verlicchi, titolare dell’armeria di Via Volturno in quanto marito di Licia Ansaloni, non esita nemmeno per un secondo nel riconoscere Fabio Savi. A questo punto la domanda sorge spontanea: com’è possibile che un uomo che ha visto Savi in qualità di cliente poche volte lo abbia subito riconosciuto, e nessun suo collega se ne sia accorto?
Nel frattempo la banda ha deciso di usare solamente le Beretta rubate all’armeria e ha un nuovo obiettivo. Le banche. Durante queste rapine dimostrano di essere diventati dei veri professionisti, precisi, eleganti, concisi. E così, fra il 1991 e il 1994 compiono 36 rapine uccidendo 5 persone e ferendone 14. Il bottino totale è di 1 miliardo e 250 milioni di lire. Il delirio di onnipotenza si fa sempre più grande.
Due poliziotti Pietro Costanza e Luciano Baglioni, vengono incaricati di occuparsi unicamente di questo caso. La situazione ormai, è fuori controllo e serve qualcuno che si dedichi totalmente alla cattura della Banda della Uno Bianca per porre fine a questo strazio. Grazie alla telecamera di una delle banche rapinate, i poliziotti erano riusciti ad ottenere la foto di un uomo, che ancora non sapevano essere Fabio Savi.
L’ultima vittima risale al 24 maggio 1994. Si tratta di Ubaldo Paci, il direttore della Banca della loro ultima rapina. A questo punto Baglioni e Costanza decidono di appostarsi sotto varie banche e attendere che qualcosa si muova. Infatti, proprio durante uno di questi appostamenti, notano una macchina sospetta. La seguono e questa li conduce direttamente a casa di Fabio Savi. A suo sfavore giocano una serie di collegamenti fotografici. La foto che i poliziotti avevano ottenuto dalla telecamera della banca infatti, pareva ritrarre la stessa persona della foto che il comune gli ha fornito per indicargli il proprietario dell’abitazione. Ma non solo. Quando richiedono il fascicolo di Savi per avere chiarezza sul suo lavoro e il possesso di armi, la foto che trovano è indubbiamente una fotocopia dell’identikit. Allora hanno incrociato gli orari di servizio di Roberto Savi, con quelli delle rapine e, stranamente, ogni volta che è avvenuta una rapina, questo non era in servizio. A quel punto non vi era più alcun dubbio.
Roberto Savi viene arrestato la sera del 21 novembre 1994. Da qui, vengono presi tutti i componenti, uno dopo l’altro. Ed è così che finisce l’era gloriosa di quella che ricorderemo per sempre come La Banda della Uno Bianca.
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