La nostra intervista ad Andrea Mattei che ripercorre insieme a noi le tappe della sua carriera: dall’emozione della medaglia d’oro all’europeo fino al suo esordio in massima serie.
Abbiamo avuto il piacere di ospitare ai nostri microfoni Andrea Mattei pallavolista professionista che ha ripercorso insieme a noi i traguardi più importanti della sua carriera come la medaglia d’oro agli europei under-20 o la vittoria del campionato di serie A2 e della Coppa Italia. Ci rivela anche alcuni aspetti del suo carattere, il suo modo di vivere le gare e il rapporto con i tifosi, i suoi esordi e i prossimi obiettivi.
Quando hai iniziato ad avvicinarti a questa disciplina, com’è stato il primo approccio e quando hai capito che sarebbe stato lo sport della tua vita?
Mi sono approcciato a questo sport perché il mio migliore amico aveva cominciato a giocare in una società appena nata ad Aprilia, vicino casa mia. Avevamo 13 anni e per stare insieme abbiamo deciso di iscriverci cominciando a giocare lì. Ho capito che sarebbe stato lo sport della mia vita quando alcune squadre hanno cominciato ad avere interesse in me, prima la Pallavolo Velletri e poi la M Roma Volley. Ho deciso di andare alla M Roma Volley perché si trattava del settore giovanile di una squadra di serie A. Da lì ho iniziato la mia carriera e diciamo che il mio carattere mi ha aiutato molto.
Hai iniziato giovanissimo nel 2010 nelle file della Volley Roma, tua città di origine e già nel 2012 sei stato convocato nelle nazionali giovanili con cui ti sei aggiudicato la medaglia d’oro al campionato europeo Under-20 2012. Che ricordi hai di quel traguardo importante all’età di 19 anni?
Ho un bellissimo ricordo, contro la Spagna l’ultimo pallone me lo diede il palleggiatore, feci punto e vincemmo l’Europeo. Il palleggiatore mi abbracciò e mi disse: “Sapevo che eri l’unico che l’avrebbe messa a terra”, questo mi riempì d’orgoglio. E’ stata una delle emozioni più grandi della mia vita, la medaglia d’oro al collo è sempre qualcosa di indescrivibile.
Successivamente sei passato alla Pallavolo Molfetta, com’è stato il primo anno lontano da casa?
La pallavolo Molfetta è stato un anno particolarmente difficile: ero stato preso per fare il terzo centrale in una squadra che voleva vincere il campionato, una delle tre favorite. Non passammo diretti ma tramite play off, fummo la prima squadra a vincere tutti i play off 0-3, mai successo nella Lega e nella storia della pallavolo. Mi ritagliai degli spazi molto importanti nella squadra, nella finale contro il Padova che eravamo punto a punto l’allenatore mi fece entrare e giocai molto bene realizzando il penultimo punto utile per aggiudicarci la promozione.
E poi è arrivato il passaggio alla Pallavolo Padova, un anno ricco di soddisfazioni professionali dove hai vinto Coppa Italia e campionato passando in Serie A1. Com’è stata quell’annata e come viveva il gruppo una serie di successi simili?
Quello di Padova fu un anno incredibile che penso in pochi possano dire di aver vissuto. Vincemmo tutte le partite perdendone solo due fuori casa in tutto il campionato. Vincemmo anche la Coppa Italia, la mia prima Coppa da alzare al cielo. Insomma, è stato un anno incredibile, ogni domenica era una festa, l’ambiente era bello e stimolante, Padova è una piazza dove ci si allena molto bene infatti negli anni ha tirato fuori tantissimi giocatori, è una fucina di talenti. Anche il gruppo che si era creato aveva una grande armonia, era molto solido in campo e anche nei momenti difficili sapevamo che il nostro obiettivo era vincere e infatti così è stato. Penso capiti poche volte nella vita una stagione del genere e sono contento di averla vissuta.
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Dopo due anni, ti sei avvicinato alla tua città prima passando per Latina e poi a Sora. Che ricordi hai di quelle due esperienze dopo l’anno di Padova?
Quello di Latina è stato un anno sotto la guida di un grandissimo allenatore, Camillo Placì. Molto burbero nei modi, diciamo che anche se facevo bene secondo lui sbagliavo tutto ma crescendo ho capito perché mi trattava in quel modo, quando cresci capisci tante cose. Posso dire che lì sono maturato tanto da un punto di vista tecnico, con un allenatore che adesso guida una squadra di livello della Superliga russa. Placì è rinomato e rispettato nell’ambiente e sono stato fortunato ad essere stato seguito da lui.
Poi sono passato a Sora, due anni non molto fortunati e non andavamo bene in classifica, purtroppo ha pesato molto l’inesperienza di una società agli albori partecipante in una Lega così alta come la Serie A1. Poi il terzo anno, ahimè quando sono andato via, con l’allenatore Mario Barbiero e Dusan Petkovic, hanno tirato su una bella squadra. Purtroppo posso dire che quando ci ho giocato io non era ancora al massimo livello.
Oltre Padova anche a Latina, Sora e poi a Siena hai giocato nella massima serie. Cosa ti è rimasto maggiormente di queste esperienze?
Latina, Sora e Siena sono esperienze che hanno portato a cambiare la mia consapevolezza. La consapevolezza di poter giocare bene contro tutti senza avere particolari problemi, certo quando incontravo dall’altra parte il centrale campione olimpico di 2.14 m non dico fosse facile ma non mi sono mai spaventato di questo. Mi manca la massima serie, mi manca veramente tanto perché si respira un’aria diversa: i palazzetti, la gente, i tifosi e le squadre, è veramente un altro mondo, in Italia è la consacrazione di un giocatore.
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Qual è il ricordo più bello che hai della tua carriera e quale il più difficile?
Il ricordo più bello della mia carriera? Ce ne sono tanti: l’ultimo punto dell’europeo, l’ultimo punto della Coppa Italia. Diciamo che nei momenti importanti usciva fuori la mia romanità e di questo ne sono orgoglioso: dare sempre il massimo e sempre con la testa.
Il periodo più complicato penso sia stato a Siena, ho vissuto un momento di difficoltà in cui non riuscivo a giocare, mi ha segnato particolarmente però verso gennaio riuscii a ritrovare la forza tant’è che sia il presidente che il direttore sportivo se ne accorsero e mi incoraggiarono. Insomma ho vissuto un periodo un po’ cupo per poi ritrovarmi come giocatore e anche come persona, migliorando.
Attualmente hai firmato, anche per questa stagione e per il secondo anno consecutivo, con la Conad Tricolore, complice la scelta dell’allenatore e il progetto della squadra che ha creduto sin da subito nell’importanza del tuo valore aggiunto. Cosa significa per te sentirsi il fulcro di un progetto e quanta responsabilità in più ti dà?
Sì, ho firmato alla Conad Tricolore per la squadra e per l’ambiente, si sta molto bene qui. Ho dei miei obiettivi da portare avanti, sicuramente essere un pilastro della squadra mi dà tanta energia e non lo vivo come un peso o un problema. Sapere che la squadra può contare su di me mi stimola a fare sempre meglio e a non perdere mai la concentrazione. In allenamento pretendo il massimo sia da me stesso, credendo tantissimo nelle mie potenzialità, sia dagli altri e forse per questo posso risultare un po’ antipatico ai miei compagni di squadra ma sono fatto così, è un’occasione molto importante per me e per come si sta svolgendo questo campionato. Ci sono ragazzi con la testa sulle spalle, è un anno molto particolare e voglio sottolineare il fatto che ci sono giocatori che anche se non partono titolari si fanno trovare sempre pronti ed è bello quando trovi una cosa del genere.
Ti definisci una persona socievole quanto è importante per te il gruppo all’interno di una squadra e come vivi il distacco quando devi lasciarlo cambiando società? E al contempo ami le nuove sfide e ti riadatti facilmente a una nuova realtà?
Il gruppo in una squadra è tutto, l’anno di Siena per esempio feci parte della squadra più forte dove abbia mai giocato e posso metterci la mano sul fuoco. Il problema è che non si era creato un gruppo e nel momento di difficoltà ci è mancata la forza di uscirne fuori insieme e questo ci ha tagliato le gambe tanto da costarci la retrocessione. Per questo posso dire che il gruppo fa tantissimo, ad esempio quest’anno c’è Ortona che non ha giocatori di spicco eppure si stanno mostrando molto in gamba perché sono riusciti a creare un gruppo fantastico.
Quando cambio società non è mai facile perché comunque si crea un gruppo di amici ed è difficile lasciarli ma il mio carattere e la mia testa mi porta a puntare sempre più in alto e a non lasciarmi mai andare, cercando di prefissarmi sempre nuovi obiettivi. Riambientarsi non è un problema, lo è stare tanti anni lontano da casa, quello sì però alla fine si supera anche quello. Poi tornando al discorso di prima io ho bisogno sempre di nuove sfide è proprio il mio carattere e la mia indole che mi porta a questo, non mi accontento. Certamente poter far parte di una squadra dove si gioca la Champions League, la Coppa Italia e in campionato si lotta per lo scudetto è un traguardo importante ma ora il mio desiderio è quello di fare ogni anno sempre meglio e finché non farò parte di una squadra di questo livello, l’obiettivo sarà arrivarci.
Come vivi il rapporto con i tifosi e quali sono le critiche, se ci sono, che ti fanno particolarmente star male?
I rapporti con i tifosi variano a seconda dell’ambiente, della società, della squadra e della città. Ci sono stati anni dove per esempio non potevo uscire di casa, quando perdi non hai neanche voglia di prendere il caffè al bar perché come nel calcio anche nella pallavolo alcuni tifosi quando le cose vanno male diventano allenatori e per noi non è mai facile. Però posso dire che a Reggio Emilia ho trovato dei tifosi che in qualunque momento sono sempre pronti a incitarti e non è ovunque così. Tuttavia personalmente mi sono sempre trovato bene, perché anche se le cose non andavano per il meglio il mio carattere e la voglia di non arrendersi mai piaceva molto anche ai tifosi più critici. A volte anche quelli avversari mi hanno fatto i complimenti per il mio modo di approcciare le gare: potremmo stare 24 pari o 24-10 la mia testa è sempre quella e non cambia.
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Le critiche ci sono state ma mi hanno dato forza, dico:” Voi pensate questo? Vedrete che è tutt’altro” perciò personalmente non mi toccano, non fanno di certo sì che io possa voler andar via da una squadra o pensare male del team o della città in cui mi trovo. Resto sempre concentrato su quello che devo fare e che mi sono prefissato.
MELISSA LANDOLINA
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