Sulla base di numerose pubblicazioni scientifiche, l’ormone steroideo potrebbe essere un’arma efficace contro il coronavirus.
Un numero crescente di pubblicazioni scientifiche dimostra che l’integrazione di vitamina D potrebbe aiutare a ridurre l’infezione da SARS-CoV-2. Insieme al vaccino, il particolare ormone steroideo potrebbe infatti ridurre il rischio di sviluppare forme gravi di malattia da Covid-19. A dare la notizia è un comunicato pubblicato dall’Ospedale universitario di Angers, città della Francia occidentale che si affaccia sul fiume Maine, ai margini della Valle della Loira. Gli specialisti del CHU Angers (Centre Hospitalier Universitaire) hanno compilato i dati scientifici disponibili in un paper. Il documento è stato pubblicato l’8 gennaio su La Revue du Praticien. L’articolo ha come argomento il rapporto tra vitamina D e infezione da Covid-19 e, in particolare, gli esperti citano i risultati di uno studio norvegese, da cui risulta che i consumatori abituali di olio di fegato di merluzzo, ricco di vitamina D, sono i soggetti meno a rischio infezione virale.
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La vitamina D, che si trova in alimenti come pesce, latte e uova, non sostituirà il vaccino e non può essere definita come una panacea, ma potrebbe aiutare. Secondo il parere di questi 73 esperti, supportati dalla Società francese di pediatria (SFP) e dalla Società francese di geriatria e gerontologia (SFGG), “l’integrazione di vitamina D potrebbe essere un ottimo coadiuvante del vaccino” per combattere il virus. La sua assunzione può essere veramente efficace, dato che dal 40 al 50% della popolazione francese soffre di ipovitaminosi D, cioè di insufficienza di vitamina D. Tuttavia, questa cura non è affatto miracolosa: la vitamina D “non può essere considerata come arma esclusiva contro il SARS-CoV-2, allo stesso livello della vaccinazione”, avvertono gli specialisti.
Evidenziando “una misura semplice, efficace, sicura ed economica, rimborsata dalla previdenza sociale”, i ricercatori raccomandano l’integrazione di vitamina D durante tutto l’anno, specialmente per le persone maggiormente a rischio ipovitaminosi D (cioè gli anziani dagli 80 anni e più, o persone con infermità); mentre per l’intera popolazione durante il periodo invernale. Con l’arrivo della stagione fredda la secrezione naturale di vitamina D è pressoché nulla, a causa della mancanza di sole.
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Infine, gli esperti propongono di prescrivere una dose elevata di vitamina D a tutti i pazienti con accertata infezione da Covid-19, come trattamento coadiuvante “non rischioso”, da affiancare ai regolari protocolli di trattamento attualmente disponibili.
Fonte Le Point
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