Alcuni piani posti in essere per mitigare il fenomeno del cambiamento climatico danneggerebbero i Paesi in via di sviluppo: lo studio.
Che il Pianeta abbia bisogno di attuar politiche sostenibili e rivolte maggiormente all’ambiente è fuor d’ogni dubbio. Proiezioni e stime parlano chiaro, i livelli attuali di inquinamento altro non fanno che accelerare fenomeni letali, come il surriscaldamento globale ed il cambiamento climatico, per tutte le specie viventi. Ma a che prezzo? Già perché secondo un recente studio, per quanto siano nobili gli intenti esiste un’altra faccia della medaglia. Secondo un recente studio, alcuni piani per contrastare il climate change nuocerebbero ai Paesi in via di Sviluppo ed alle popolazioni svantaggiate.
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È stata l’Università di Oxford attraverso un suo recente studio a mostrare questo lato oscuro dei piani green tesi a frenare il fenomeno del cambiamento climatico. Stando a quanto riportato dalla redazione dell’Environment Journal, il prestigioso Ateneo avrebbe pubblicato i risultati della propria ricerca sul World Development e da questi emergerebbe l’insospettabile dato. Alcuni progetti, infatti, per la loro struttura e modalità di attuazione altro non farebbero che nuocere ai Paesi maggiormente vulnerabili ed in possesso di un’economia fragile.
In collaborazione con la NMBU, Università norvegese, i ricercatori di Oxford hanno preso in considerazione ben oltre 30 progetti constatando l’impatto di ognuno di essi. Ebbene da qui sarebbe nata la valutazione, che ha portato all’individuazione di quattro punti focali i quali esplicano i presupposti in forza dei quali si registrerebbero negativi riverberi. In primo luogo il sottovalutare il contesto spesso caratterizzato da disparità di genere o la iniqua distribuzione delle risorse. Non da meno, l’escludere gli autoctoni dalla realizzazione del progetto. A queste si aggiunge l’assenza di valutazione di un dato fondamentale: ossia verificare se effettivamente siano stati centrati i punti focali. Infine, una totale sconoscenza di quelli che sarebbero i termini per effettivamente valutare se il piano sia andato a buon fine.
Tra tutti, gli interventi maggiormente nocivi vi sarebbero quelli che propongono un reinsediamento. Si pensi, riferisce l’EJ, alla popolazione di pastori che vengono trasferiti in altri luoghi: non solo perdono le proprie terre, ma vengono insediati in luoghi nuovi di cui non conoscono le caratteristiche. Ciò pregiudica la loro stessa sopravvivenza in quanto a mutare sarebbe anche la loro sicurezza alimentare.
La coordinatrice dello studio, la dottoressa Lisa Schipper, come riporta EJ, avrebbe sottolineato come oggi i progetti di reinserimento stiano portando più danni che benefici. I risultati del rapporto mostrano come questi interventi potrebbero tramutarsi in fattori di emarginazione.
Fa da eco alle sue parole il professor Siri Eriksen dell’NMBU, il quale ha altresì aggiunto che per far si che realmente questi investimenti siano proficui è necessario che chi li effettua vada a valutare minuziosamente tutti i punti critici condensati nei quattro punti espressi all’interno dello studio.
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Il professore ha chiosato affermando che chiedere un aumento dei finanziamenti è un’attività fine a sé stessa. Non apporterebbe alcun beneficio, anzi. Accentrerebbe la ricchezza nelle mani di pochi e pregiudicherebbe ancor più le condizioni di vita di soggetti svantaggiati dai cambiamenti climatici.
M.S.
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