La Banca Mondiale avrebbe stoppato la pubblicazione del suo report Doing Business per presunte manipolazioni in favore della Cina.
Il report Doing Business, redatto dalla Banca Mondiale, classifica 190 Paesi in base alla loro potenza economica ed alle potenzialità di mercato che potrebbero avere per gli investitori. Un rapporto che, in base al posizionamento, consente ai Paesi più in alto di ricevere significativi aumenti di capitale l’anno successivo alla pubblicazione.
Il Doing Business di quest’anno è stato fermato all’esito di un’indagine interna dalla quale sarebbe emersa una presunta manipolazione di dati in favore della Cina.
Banca Mondiale ferma pubblicazione del Doing Report: pressioni per favorire la Cina
La classifica sarebbe stata “corrotta” per favorire un miglior posizionamento della Cina e consentirle, quindi, un significativo aumento di capitale e di conseguenza un incremento delle quote azionarie.
Questo, riporta Il Fatto Quotidiano, lo scandalo che avrebbe travolto la Banca Mondiale la quale ha deciso di fermare la pubblicazione del report. A far emergere la possibile alterazione dei dati, un’indagine interna allo stesso Istituto all’esito della quale sarebbe emerso che alcuni ex capi, premettero sul team di elaboratori per migliorare il piazzamento del Paese del Dragone rispetto a quello che gli era stato assegnato.
Leggi anche —> AUKUS, il patto che fa infuriare la Cina: di cosa si tratta
Nell’inchiesta coinvolta ex managing director Kristalina Georgieva, oggi al vertice del Fondo Monetario Internazionale. Secondo quanto riferito da Il Fatto Quotidiano, lei insieme all’ex presidente Jim Jong Kim avrebbe esercitato delle pressioni affinchè nel report del 2018, Pechino salisse nel ranking.
Il Comitato del Fondo ha, quindi, avviato un’indagine a carico della Georgieva ed il Tesoro Statunitense (ad oggi maggior azionista) ha fatto sapere che è in corso una più approfondita analisi sulla figura della bulgara.
Nella prima bozza del Doing Business la Cina era stata classificata all’85° posto. Una circostanza mal tollerata da Pechino che avrebbe spinto affinchè migliorasse quel piazzamento tanto che, il giorno successivo, nel corso di un vertice appositamente tenutosi qualcuno – riporta Il Fatto Quotidiano– avrebbe finanche avanzato l’ipotesi di considerati nei dati della Cina, quelli di Taiwan ed Hong Kong.
Fu in quel momento che entrò, probabilmente, in scena la Georgieva la quale scartò questa possibilità ammonendo anche un funzionario reo a suo avviso di non aver valutato l’importanza del report per la Cina e per non aver curato i rapporti tra quest’ultima ed il Fondo.
Sarebbe stata tentata, quindi, una strada diversa: valutare solo i parametri di Pechino e Shangai, che presentavano i risultati migliori. Anche questa strada, però, non venne percorsa.
Alla fine vennero modificati alcuni indicatori in corsa, come i “Diritti legali”, riporta Il Fatto Quotidiano, nonché l’“Avvio di un’attività” e “Pagare le tasse”. Elementi che avrebbero potuto giustificare una scalata del Paese nella classifica. Grazie a tale rimodulazione la Cina risalì al 78° posto.
Leggi anche —> Afghanistan, la Cina lancia messaggio d’allerta ai Paesi confinanti
La Georgieva ha respinto in toto le accuse ed ha riferito come sul punto ha “già avuto un primo incontro con il Board dell’Fmi”.
Numerose le ombre su questo report che vedrebbero poca trasparenza anche in relazione al piazzamento di Azerbaigian, Emirati Arabi e Arabia Saudita. Tuttavia dalle indagini, seppur siano state riconosciute delle inesattezze anche per questi Paesi, nessuna delle situazioni si avvicinerebbe a quella della Cina.